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Fratelli umani udite

da Deborah Cesana / 23 Settembre 2024 – כ׳ באלול ה׳תשפ״ד / Pubblicato il - Articoli in primo piano -

Pubblichiamo il testo dell’introduzione di Fabio Levi, Presidente del Centro Internazionale di Studi Primo Levi, alla scelta dei tre testi di Primo Levi sul tema della famiglia che sono stati letti dall’attrice Irene Paloma Jona il 15 settembre nell’ambito della Giornata Europea della Cultura Ebraica.

Vorrei iniziare precisando da quali testi sono tratti i brani che Irene Paloma Jona vi leggerà subito dopo questa mia breve introduzione. Il primo è La mia casa, pubblicato in “AD Architectural Digest” nel 1982 e raccolto poi ne L’altrui mestiere uscito tre anni dopo. Il secondo è la versione definitiva di Argon, primo degli scritti che compongono Il sistema periodico pubblicato nel 1975. Il terzo è una poesia, Nel principio, compresa nella raccolta L’osteria di Brema del ’75 e poi riproposta in Ad ora incerta del 1984. Testi dunque di intonazione diversa: per cominciare quello che potremmo definire un elzeviro, poi un racconto di ampio respiro storico e infine un componimento poetico di sapore biblico.
In tutti i tre casi il tema della famiglia emerge in modo non proprio diretto, esplicito, ma da notazioni di luogo, di tempo, da avvenimenti e da personaggi particolari, che aprono ogni volta prospettive originali e molto diverse fra loro, sollevando interrogativi di non poca importanza.
La mia casa descrive l’abitazione di corso Re Umberto, a Torino, in cui Levi è vissuto sin dalla nascita e poi con la moglie e i figli per tutta la vita, seppure con alcune “involontarie interruzioni”: un luogo capace di soddisfare i “bisogni primari: spazio, calore, comodità, silenzio, privatezza” e con cui lo scrittore dice di aver mantenuto un rapporto “inavvertito, ma profondo, come si ha con le persone con cui si è convissuto a lungo”, prime fra tutte quelle di famiglia. 
Quel rapporto, con la casa e con chi vi abita, è quasi impalpabile perché è fatto di gesti ripetuti tante volte in momenti e condizioni differenti, e proprio per questo pieni di significato. Gesti vissuti intensamente, ma che è difficile e non ha gran senso raccontare ad altri; se non in casi eccezionali, quasi per necessità, come ad esempio nella poesia 12 luglio 1980 indirizzata alla moglie Lucia in occasione del suo cinquantesimo compleanno, ma solo per allusioni, con pudore estremo e una punta di autoironia.
Ne La mia casa, in primo piano sembrano essere gli oggetti, gli oggetti concreti, laddove il superfluo è quasi assente: un parapioggia grondante, una grossa chiave, un bastone da passeggio. Quanto ai componenti della famiglia, essi compaiono al completo uno dopo l’altro – il padre, la madre, la moglie, i figli -, ma li incontriamo solo di sfuggita, fra una stanza e l’altra. Quasi evanescenti agli occhi del lettore, ma come punti fermi di una vita per lo scrittore.
Ad essi si aggiungono altri personaggi, non meno sfocati ma pur sempre importanti: lo zio Corrado, la “favolosa donna fissa”, i parenti e gli amici sfollati in casa Levi durante la guerra, e altri. La famiglia è un mondo solidamente strutturato, ma all’occorrenza, e proprio per quella sua trama forte, è capace di aprirsi e di allargare i suoi confini.
Con Argon il quadro ci appare molto diverso. È come se facessimo un salto di dimensione. Lo spazio del racconto, ben oltre i muri di una singola casa, comprende l’intero Piemonte fino a focalizzarsi, dopo un accenno al paese di Bene Vagienna, residenza dei Levi per buona parte dell’800, su Torino e su un “alloggio fosco e cieco” in fondo a via Po. L’arco temporale è ben più ampio e parte dal 1500 per estendersi a grandi falcate ai decenni successivi all’emancipazione degli ebrei concessa dai Savoia nel ’48, fino a chiudersi negli anni ’20 del secolo scorso. In quello spazio e in quel tempo si muove “con un atteggiamento di dignitosa astensione” un brulicante novero di “zii” e di “zie”, di “barba” e di “magne” La narrazione procede attraverso ritratti folgoranti dei loro comportamenti spesso sorprendenti. È il mondo degli antenati dove la rete dei rapporti parentali si sovrappone e si confonde con quella dei rapporti intracomunitari. Le notizie sugli uni e sulle altre si tramandano attraverso le generazioni, senza troppo badare alle reali distanze nel tempo o nelle linee di discendenza, per arrivare alla fine ad alcune pennellate incancellabili su nonna Malia e sul padre di Levi.
Quel gruppo di famiglia allargato si distingue per alcuni tratti inconfondibili: un’intima inerzia dovuta forse a una storia più povera di quella vissuta da altre comunità ebraiche in Italia e in Europa; il fatto di non essere molto amato né molto odiato dai gojim, responsabili però di aver creato una “parete di sospetto” cui la minoranza oppone una “barriera simmetrica” non priva di orgoglio. Quel “mondo famigliare arguto, mite e assestato” non disdegnava d’altra parte di mescolarsi a volte con alcuni cristiani, facendo dei propri confini un luogo sfrangiato nella composizione e nei comportamenti. E per presidiare quei confini faceva uso di un “gergo particolare” dotato di una “funzione dissimulativa e sotterranea”; esso era frutto dell’incastro di termini ebraici nel dialetto piemontese e, anche nella sua comicità, rifletteva sia il contrasto “essenziale” fra l’ebraismo della diaspora e la “miseria quotidiana dell’esilio”, sia “quello insito nella condizione umana, perché l’uomo è centauro, groviglio di carne e di mente, di alito divino e di polvere”.
Ecco allora che il mondo degli antenati, la famiglia delle origini si presenta in un alternarsi nella memoria di colori forti e sfumati e, nella realtà, come il frutto della relazione complessa e contraddittoria fra mondo ebraico e mondo circostante, fra una cultura fortemente caratterizzata e l’universalità della condizione umana.
Infine la poesia Nel principio ci costringe a un ulteriore e vertiginoso salto di scala. Ai “fratelli umani”, tutti, Levi rivolge un richiamo severo: a riconoscersi tali nel nome di “nostro padre comune e nostro carnefice”, il “globo di fiamma, solitario, eterno” che, esplodendo “venti miliardi d’anni prima d’ora” diede la nascita a ogni cosa. In una tale prospettiva, alla famiglia umana, nel suo dolore, nelle fatiche di ogni giorno, negli occhi della donna amata, fino alla mano dello scrittore, non sono posti confini.
Di tutto questo sentirete nella lettura che sta per iniziare. Ma prima di metterci all’ascolto vi chiedo ancora un momento per potervi spiegare la scelta e l’accostamento dei tre testi cui ho appena accennato. 
Nell’opera dei grandi autori siamo spesso tentati di cercare risposte alle nostre domande esistenziali. Nel caso di Levi, ad avere simili aspettative potremmo però rimanere delusi. Le sue pagine ci aiutano sì a entrare in mondi diversi, aprono in molte direzioni, ma più che dare certezze sollevano soprattutto interrogativi.
Sarete posti ora di fronte a tre situazioni diverse, che però fra loro hanno in comune almeno due elementi. Il primo è che di tutte lo scrittore si sente parte a pieno titolo. Il secondo è che quel suo sentirsi parte insieme ad altri è definito da termini – zio, zia, padre, fratelli, ecc. – che hanno una chiara connotazione parentale, come se l’ambito famigliare cui egli mostra di appartenere ogni volta si estendesse progressivamente, dal nucleo ristretto dei suoi congiunti più cari alla famiglia delle origini e all’ambito comunitario, fino alla famiglia umana; col che quei termini finiscono ovviamente per assumere significati, e dunque anche valori, via via diversi.
Ed è proprio su quelle diversità che vorrei orientare l’attenzione di tutti voi, tenendo conto ognuno della vostra esperienza e delle maggiori o minori affinità con il contesto ebraico piemontese di cui Primo Levi era figlio. Chiediamoci: fin dove si estendono i confini della famiglia nucleare e quali fattori favoriscono o meno la sua capacità di accoglienza? Come si pone il rapporto con le nostre origini e la relazione fra la famiglia e il gruppo o la comunità di appartenenza in un contesto determinato? Come può essere vissuto il passaggio, troppo spesso tutt’altro che lineare, fra la specifica appartenenza e una dimensione universalmente umana?

Fabio Levi

A questo link sul canale Youtube è possibile vedere la lettura integrale dei testi dall’attrice Irene Paloma Jona

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