A pane e acqua

Parliamo questa sera del rapporto fra cibi e bevande. E’ noto che non basta assumere cibo: occorre anche accompagnarlo con l’acqua. L’acqua non nutre (per questo motivo la Halakhah la esclude dagli alimenti con cui è lecito compiere l’Eruv, che devono essere appunto mazòn, nutrimento), ma aiuta la digestione in tutte le sue fasi e ci rifornisce di sali minerali, indispensabili per il nostro sostentamento. La Torah sostiene questa visione. I Chakhamim affermano che shetiyyah bi-khlal akhilah, “la bevuta è halakhicamente parte della mangiata”: ne consegue per esempio che, a differenza di altre religioni che permettono ai digiunanti di bere, da noi il digiuno riguarda sia mangiare che bere. D’altronde un’opinione sostiene che per poter recitare la Birkat ha-Mazon secondo l’obbligo più completo della Torah non basta aver mangiato pane: occorre anche averlo accompagnato con l’acqua. C’è un versetto della Parashah odierna che richiede qualche precisazione in proposito: “E servirete H. D. vostro ed Egli benedirà il vostro pane e la vostra acqua” (Shemot 23,25). Notiamo come il versetto cominci al plurale e prosegua al singolare. Il servizio Divino di cui parla è la Tefillah e in particolare lo Shemoneh ‘Esreh, che rappresenta il centro delle nostre preghiere quotidiane. Il versetto afferma che la Tefillah è strumento per avere la nostra Parnassah quotidiana. Nei giorni feriali preghiamo tre volte al giorno recitando diciannove Berakhot ogni volta: Shachrit, Minchah e ‘Arvit. 19×3=57. 57 è il valore numerico della parola Dagàn che significa “grano”, con cui si fa il pane. Inoltre 57 è anche il valore numerico della parola zàn, “che nutre”, che troviamo al termine della prima Berakhah della Birkat ha-Mazòn (ha-zàn et ha-kol) che recitiamo proprio dopo aver mangiato pane. Ecco che la prima benedizione del versetto, quella riferita al pane, si realizza mediante la recitazione della ‘Amidah individuale tre volte al giorno. Il nutrimento, la parte cibo, è così coperta. Ma non basta. Accanto alla preghiera individuale non è meno importante la Tefillah collettiva. Essa consiste, come è noto, nella ripetizione della ‘Amidah di Shachrit e Minchah da parte del Chazan. Per ragioni che ora non spiegheremo, ‘Arvit non viene ripetuta. Per chi partecipa alla Tefillah pubblica, le ‘Amidot giornaliere diventano dunque cinque. 19×5=95 ed è il valore numerico di ha-mayim, “l’acqua”. Ecco il riferimento alla seconda benedizione del versetto. Essa è condizionata alla nostra partecipazione alla Tefillah pubblica. L’acqua sta al pasto come la Tefillah pubblica sta a quella individuale. In teoria la Tefillah individuale potrebbe bastarci, così come uno può decidere di rinunciare a bere durante il pasto. Egli si nutre lo stesso mangiando. In realtà verrebbero a mancargli i sali minerali che l’acqua fornisce e digerirebbe in modo più difficoltoso. Analogamente chi prega privatamente ma si astiene dal partecipare alla Tefillah pubblica perde gran parte della propria esperienza. I nostri Maestri richiamano l’espressione: be-rov ‘am hadrat melekh. Letteralmente significa: “Se c’è moltitudine di popolo, il Re è onorato”. Ma se leggiamo hadrat in aramaico anziché in ebraico, può essere tradotta: “Se c’è moltitudine di popolo, il Re torna” sulla propria decisione. Solo la Tefillah pubblica ha la forza di far recedere H. da eventuali condanne già pronunciate contro di noi. Quattro sono i motivi per i quali la nostra Tefillah non sempre viene accolta. 1) H. ci può dire: “Ciò che chiedi ti fa male”. In tal caso è difficile che la forma pubblica della preghiera possa esserci di beneficio. 2) La seconda eventualità è che H. ci dica semplicemente: “Provvederò a te più tardi. Ora non è il momento”. Se ci presentiamo con una class action, sappiamo bene che l’Ufficio cui ci rivolgiamo, messo sotto pressione collettiva, potrebbe cambiare idea e accorciare i tempi. 3) La terza evenienza è che H. ci dica: “Non te lo meriti”. Anche in questo caso, se ci presentiamo in gruppo i difetti di uno saranno compensati dai pregi di un altro e la chance che la nostra richiesta sia accolta cresce notevolmente. 4) Infine H. potrebbe dirci, come un buon padre: “Se compero il gelato a te, sarei ingiusto verso tutti i tuoi fratelli che non sono qui e non lo ricevono”. Cosa si fa in questo caso? Si va dal Padre insieme a tutti i nostri fratelli! Che H. ci aiuti a partecipare sempre alla Tefillah nel Bet ha-Kenesset wimallè kol mish’alot libbenu le-tovah.
È permesso mettere un recipiente pieno di acqua o di un altro liquido freddo in vicinanza di una fonte di calore per stiepidirlo. E’ indispensabile però che il liquido si trovi ad una distanza tale da non potere scaldarsi tanto da raggiungere una temperatura di 40-45° (a seconda delle opinioni), anche se ciò si verificherebbe lasciandolo per un tempo superiore a quello effettivo. Infatti i Maestri hanno decretato di non lasciare il recipiente in vicinanza di una fonte di calore che possa portare il liquido alla temperatura proibita, anche se si intende lasciare il recipiente solo per poco tempo, dal momento che ci si potrebbe dimenticare, e trascorrendo ulteriore tempo potrebbe scaldarsi eccessivamente. Per questo è necessario fare molta attenzione, senza fare calcoli affrettati.
Qual è il principale problema di un homeless? Non essere in grado di osservare la Mitzwah della Mezuzah e del Ma’aqeh (il parapetto sul tetto), perché non ha una casa. I nostri Maestri insegnano che i beni materiali ci vengono forniti affinché possiamo osservare le Mitzwòt ad essi legate. Questo deve essere sempre il nostro primo pensiero. Quando acquistiamo una casa nuova dobbiamo anzitutto pensare all’opportunità che ci viene data di collocarvi la Mezuzah. Quando comperiamo un vestito nuovo pensiamo all’occasione di mettervi lo Tzitzit (sempre che abbia quattro angoli). Se prendiamo un nuovo campo pensiamo alle Mattenot ‘Aniyim che la Torah prescrive di dare sul prodotto. Solo in un secondo momento potremo unire al pensiero “sacro” quello del godimento “profano”, come se fosse una Tossefet me-chol ‘al ha-qodesh. Questo ci consente di comprendere meglio il primo Rashì della Parashat Mishpatim. Se fosse stato scritto Elleh ha-Mishpatim ciò che segue rinnegherebbe ciò che precede, ovvero i Dieci Comandamenti. Ma dal momento che la Parashah comincia con We-elleh ha-Mishpatim, la waw ha-chibbur unisce ciò che segue a ciò che abbiamo letto la scorsa settimana in un unicum ideale: come i Dieci Comandamenti sono stati dati sul Sinai, così gli argomenti di oggi sono stati trattati sul Sinai. Ecco che la nostra Parashah che si occupa di tante piccole questioni materiali che riguardano buoi, asini, custodia di oggetti, ecc. trae la sua ispirazione e si pone sullo stesso piano dei Dieci Comandamenti dati sul Monte Sinai. Rashì continua spiegando che il Bet Din che dirime queste controversie doveva avere sede presso l’Altare, alla cui costruzione erano dedicati gli ultimi versi della Parashah scorsa. Sappiamo in effetti che il Sanhedrin aveva sede nella Lishkat ha-Gazit del Bet ha-Miqdash, ma non esattamente presso l’Altare. L’accostamento non è geografico, ma ideale. Si vuol dire piuttosto che anche il più terreno degli interessi ha una sua natura religiosa e come tale deve essere affrontato. Nel seguito della Paraashah è scritto: “Non ritardare la consegna delle decime. Dàmmi il primogenito dei tuoi figli” (22,28). Può essere interpretato allegoricamente: Nel raccogliere i prodotti del campo metti il tuo primo pensiero per Me senza indugio. Il primo pensiero (bekhor) di ogni tuo progetto (banim, “figli” come bonim, “costruttori”) deve essere dato a Me, ovvero alle Mitzwòt che comporta. Solo allora “così farai al tuo bue e al tuo gregge” (v. 29), cioè solo allora potrai fare concessioni all’animalità e alla materialità che è in te. Infine, il Passuq conclude dicendo: “per sette giorni (l’animale neonato) starà con sua madre e nell’ottavo me lo potrai offrire in sacrificio”. Non mi soffermerò sul significato del numero otto, che rappresenta il soprannaturale rispetto al sette, numero della natura (Maharal di Praga). Dirò soltanto che c’è un’altra Mitzwah simile a questa che riguarda non gli animali ma gli uomini: il Berit Milah. C’è però una differenza: mentre per gli animali il sacrificio all’ottavo giorno è una semplice facoltà, la Milah dell’essere umano all’ottavo giorno è un obbligo. Il regno animale non conosce il concetto di obbligo, ma solo quello di desiderio. L’obbligo caratterizza invece gli uomini, dotati della capacità di assumersi responsabilità. E’ quello che l’obbligo della Milah ci insegna. Fin dall’ottavo giorno.

Hilkhot Bishul – III parte

E’ permesso versare dell’acqua calda, persino da un kelì rishon (recipiente che si trova o sia stato in precedenza su una fonte di calore), su dell’acqua fredda. In generale infatti si dice che “tachton gover – l’inferiore predomina” sul superiore e lo raffredda. La situazione contraria tuttavia comporta una trasgressione. Versando infatti dell’acqua fredda su dell’acqua calda, quest’ultima scalda l’acqua fredda. Se però l’acqua si trova in un kelì shenì (secondo recipiente, che non è stato su una fonte di calore),anche se il liquido in esso contenuto è caldo (con una temperatura superiore ai 40- 45 gradi, a seconda delle opinioni), è permesso versarvi dell’acqua fredda. Alcuni permettono anche di versare acqua fredda in grande quantità in un kelì rishon, perché essendo in quantità maggiore rispetto all’acqua calda non sarà possibile scaldarla, ma verrà solamente intiepidita. Infatti l’acqua fredda si mescolerà istantaneamente con l’acqua calda raffreddandola. Quanto detto è applicabile unicamente nel caso in cui l’acqua fredda venga versata tutta assieme, ma se viene versata a poco a poco è proibito, perché la poca acqua fredda versata viene immediatamente scaldata, e il fatto che successivamente, continuando a versare, si raffreddi, non è rilevante.

Storpiature metriche

Il numero 19 di Torat Chayim ospita un’interessante e affettuosa discussione fra Leo Levi e Rav Artom per via di una divergenza di vedute sorta all’interno del Tempio Italiano di Gerusalemme. Il testo di Leo Levi, dal titolo “Stonature, metrica medievale e letti di procuste” prende spunto dalle tefillot di Kippur recitate da Rav Artom, tefillot, per dirlo con le parole di Leo Levi “recitate, più che cantate, dalla stonatissima voce di M. Emanuele Artom”. Indipendentemente dalle senz’altro divertenti parole di Levi, la questione posta è quanto mai interessante e se si vuole attuale per chi ha un minimo di dimestichezza con la chazanut. Cercando di semplificare il discorso di Levi, che ben presto diviene decisamente tecnico, vengono poste diverse questioni che si rivelano utili per ricostruire alcune tendenze nella parabola degli stili chazanistici italiani. Anzitutto nel bet ha-keneset si nota una tendenza abbastanza generalizzata di ricerca di esibizione di “belcanto (?)” con “arabeschi sefardizzanti” e “melliflui glissando”, non il linea con la tradizione liturgico-musicale del rito italiano. Lo stile degli Artom padre e figlio,con la loro dizione, “fredda, incolore o monotona, senza nasalità nè mollezze, ma seria composta e fedele alle antichissime melodie del rito italiano” ha soddisfatto coloro che nella preghiera cercavano serietà e intimità. Tralasciando tuttavia l’apprezzamento, Levi muove una critica ad alcune incredibili storpiature nella metrica dei pyiutim, indipendenti dall’assenza di orecchio musicale che non consente di eseguire correttamente le delicate linee melodiche dei canti. Il problema non è cosa da poco, perché il problema della corrispondenza fra la linea melodica e lo schema metrico degli inni è una questione affrontata in molti volumi relativamente al problema parallelo dell’esecuzione chiesastica degli inni ambrosiani e gregoriani. Levi, per illustrare la sua affermazione, riporta un lungo passo del Sesini su un tema molto caro agli studiosi di liturgia medievale: l’esecuzione degli inni ambrosiani, i più antichi nella liturgia cristiana, che risalgono al IV sec. e sono quindi coevi dei più antichi pyiutim ebraici. Per questi inni la questione posta da Levi è irrilevante, perché il latino medievale aveva una sintassi “sciolta”, che non esigeva alcun ordine nelle parti del discorso. La stessa caratteristica può essere individuata negli antichi pyiutim, che tuttavia hanno dei principi formali ben precisi, prima dell’isosillabismo (un certo numero di sillabe uguale per ogni verso, indipendentemente dagli accenti tonici) e dell’isotonia (un numero di accenti tonici prefissato in ogni verso, lasciando indeterminato il numero di sillabe atone fra un accento e l’altro), poi i metri o mishqalim arabi, in cui ogni verso o emistichio è presente un numero preciso di vocali accentati e semivocali atone. Un esempio del primo tipo di pyiut è Ahavta Tzedeq watisnà resha della sera di Kippur, del secondo tutti i pyiutim della sera di Kippur m, da Ya’aleh tachannunenu fino aYom Ya’alah niqrà, del terzo tipo Yigdal e Adon ‘Olam. A tutti questi inni molti secoli fa vennero applicate delle melodie, risalenti al medioevo, epoca in cui il passaggio dalla lettura metrica alla lettura tonica ancora non era avvenuto. Nell’ebraico il valore delle sillabe lunghe era ancora percepito come diverso da quello delle sillabe brevi e brevissime. Probabilmente molte delle parole che oggi leggiamo ossitone erano pronunciate parossitone, ed il ritmo del discorso era più femminile che maschile, più trocaico che giambico. Con ogni probabilità anche la poesia ebraica risentiva di questa tendenza, con un’accentuazione e forse un ritmo più quantitativo che qualitativo, e certo più trocaico che giambico. La riprova è proprio la melodia dei pyiutim italiani e dei te’amim italiani, tutti a conclusione femminile. Dopo questa premessa Levi entra nel merito per contestare Rav Artom sui versi in cui il significato logico non corrisponde alla divisione strofica. Porta due esempi fra molti, Yisrael bechirè El, dove il verso Zekhor etan – asher natan – benò yechidò – lazevachim viene diviso Zekhor etan – asher natan benò yechidò – lazevachim o l’Yigdal dove il verso lo yachalif haEl – welò Yamir – datò le’olamim diventa (adducendo ragioni teologiche) lo yachalif haEl – welo yamir datò – le’olamim. Artom infatti ritiene che cantando altrimenti l’Ygdal la parola datò risulterebbe legata a lezullatò. Levi ricorda che il rito italiano con ogni probabilità mantiene intatte tradizioni palestinesi del primo medioevo, preislamiche o preiberiche. Rari sono pertanto i melismi e le ripetizioni di parole dei testi per adattarle a metri musicali presi in prestito da altri testi, o comunque non composti assieme ai testi poetici originari. Levi porta come esempio la melodia sefardizzante del Mizmor leDavid, pieno di “inverosimili e illogiche ripetizioni”. Estrapolare un criterio estetico a periodi in cui esso non si applica è un palese errore storico-estetico: non si può pretendere per esempio di applicare melodie metriche alla poesia biblica, basata su parallelismi di concetti più che su ritmi di sillabe; ad essa si adatta di più il sistema dei te’amim. Non ha senso allo stesso modo “risciacquare i panni” a celebri poeti recitando gli inni liturgici. Potremo pensare che una certa poesia non è di nostro gusto, ma non potremo dire che è bella o brutta, o giusta o sbagliata. Rispondendo Rav Artom non intende entrare nel merito, non avendone gli strumenti, ma crede che non vi sia nesso fra le conclusioni di Levi e l’esecuzione dei pyiutim. Nella tefillah è essenziale esprimere certi sentimenti e certe richieste. Ovviamente la preghiera può essere resa più piacevole dalla musica, ma l’essenziale è il significato della tefillah, e l’abbellimento deve passare in seconda linea. Quindi è meglio che l’esecuzione musicale sia anti-estetica e anti-storica e non guasti l’espressione del contenuto della tefillah. Rav Artom comunque ritiene che il suo comportamento non sia una sua invenzione o un’invenzione del Tempio Italiano di Gerusalemme, poiché i chazanim italiani hanno sempre adattato le musiche al senso della tefillah: se ne può avere testimonianza ascoltando i vecchi chazanim, o vedendo le annotazioni dei chazanim sui machazorim antichi, da cui risulta che si debbono fare le pausa secondo il senso e non secondo il metro.

Strappo alla regola

Lacerare (qorea’) e tagliare secondo forma determinata (mechattekh) sono a loro volta Melakhot proibite di Shabbat. A priori é  opportuno aprire prima di Shabbat tutte le confezioni e le bottiglie del cui contenuto si farà uso di Shabbat. Si permette di Shabbat l’apertura di confezioni di cibo, bevande o altro contenuto utile che non segua una forma determinata. Costituisce un problema se l’apertura provoca la creazione di un recipiente che si presti a essere riutilizzato una volta svuotato di ciò che attualmente contiene. Il nuovo recipiente può anche essere il tappo di una bottiglia, che fino all’apertura della bottiglia costituiva tutt’uno con essa. E’ lecito secondo tutti: – rimuovere il cerchietto che circonda il tappo di plastica di molti barattoli contenenti mayonnaise, senape, ecc.; -rimuovere la linguetta all’interno del tappo di bottiglie d’olio, cartoni di latte, succo, ecc.; – aprire una lattina da bere (neanche la Melakhah di “tagliare secondo forma determinata” è operativa in questo caso, dal momento che non ci curiamo della forma, né della misura del taglio e la linguetta metallica è già predisposta a questo scopo); – strappare la pellicola interna al tappo dei barattoli di Nescafè e l’alluminio dei barattoli di yoghurt (facendo possibilmente attenzione a non tagliare o cancellare scritte o disegni); Secondo alcuni è proibito aprire di Shabbat il tappo a vite di una bottiglia, di metallo o plastica, del quale rimane l’anello inferiore nel collo della bottiglia stessa (situazione comune in alcuni vini dolci e nel succo d’uva), perché questo tipo di tappo si presta a essere riutilizzato. Se ci si è dimenticati di compiere l’operazione prima di Shabbat è oppurtuno praticare nel tappo dall’alto un largo buco con un coltello in modo da renderlo inservibile (facendo possibilmente attenzione a non tagliare o cancellare scritte o disegni), dopodiché quanto resta del tappo può essere rimosso. Il tappo seghettato che non può essere più riutilizzato e il tappo di sughero non costituiscono invece problema e possono essere rimossi anche con l’ausilio del cavatappi. Strappare o tagliare la carta igienica è proibito. Si deve pertanto prepararla già tagliata prima di Shabbat o servirsi di fazzolettini (tissues) separati fra loro.

Legami famigliari

Moshe Leib di Sassov, uno dei grandi Maestri del Chassidismo, insegna che se vogliamo evitare le trasgressioni dobbiamo iniziare ogni giornata al mattino con il compimento di una Mitzwah. In questo modo ci eleviamo rispetto ai nostri interessi personali e ci concentriamo sui nostri doveri. Quale Mitzwah? Ci sono le Mitzwòt beyn Adàm la-Maqom, che regolano i nostri rapporti con D. e quelle Beyn Adàm la-Chaverò, “fra l’uomo e il suo prossimo”. La differenza fra i due gruppi –spiega- consiste nel fatto seguente: per riuscire davvero nel primo gruppo occorre eseguire la Mitzwah completamente in Nome del Cielo, altrimenti non si riconosce che l’abbiamo compiuta; nel caso degli obblighi verso il prossimo, invece, anche se proprio l’intenzione non era completa la Mitzwah si riconosce già dal risultato concreto: abbiamo aiutato il prossimo, che beneficia della nostra azione. La mattina presto siamo ancora assonnati, anche spiritualmente, pertanto non è facile avere tutta la vigilanza necessaria per uscire d’obbligo beyn adàm la-Maqom. Ecco pertanto che la prima Mitzwah dev’essere beyn adàm la-chaverò, rivolta al bene del prossimo. Moshe Leib impara tutto questo da un versetto della Parashat Bo. Dopo l’Uscita dall’Egitto H. si rivolge a Moshe e gli dice: Qaddesh li khol bekhor peter kol rechem bi-vnè Israel, “SantificaMi ogni primogenito che inaugura l’utero fra i figli d’Israel” (Shemot 13,2). Il primogenito –spiega- è la prima azione della giornata, perché ogni nuovo giorno rappresenta per noi una rinascita. La prima azione della giornata deve essere “santa”: una Mitzwah. “Utero” si dice in ebraico rechem, connesso con rachamim che significa “misericordia, amore”. Da qui l’idea che la prima azione quotidiana deve essere di amore verso i figli d’Israel, cioè verso il nostro prossimo. Alma, Tu ti trovi oggi all’alba della Tua vita adulta. Hai l’occasione di inaugurare questa nuova giornata della Tua vita con una buona azione verso il prossimo. A questo punto non Ti resta che scegliere quella che più Ti aggrada. Lo Shabbat è il giorno settimanale che più e meglio dedichiamo a coltivare questo genere di legami: con i nostri famigliari, con i nostri amici, con i nostri Maestri. E’ per fare la differenza fra spirito e materia, fra i legami affettivi e spirituali da un lato e i nodi fisici dall’altro che la Halakhah annovera questi ultimi fra i divieti dello Shabbat. Fare e disfare nodi (qosher u-mattir) sono due Melakhot proibite di Shabbat. La Torah proibisce i nodi professionali (doppi nodi) durevoli. Il divieto rabbinico è esteso a: a) qualsiasi doppio nodo (qesher ummàn o qesher gamùr), anche se provvisorio: si intende per provvisorio quello destinato a essere sciolto in giornata; b) qualsiasi nodo anche semplice se destinato a rimanere (qesher shel qayyamà). In pratica per essere permesso il nodo deve avere entrambe queste condizioni: essere un nodo semplice o “a farfalla” e essere destinato a sciogliersi in giornata. I divieti comprendono anche i nodi eseguiti fra le due estremità dello stesso laccio, corda o cinghia. Qualsiasi nodo che non può essere fatto, non può neppure essere disfatto. Non è permesso legare fra loro le due maniglie di una borsa di plastica se questa non è destinata a essere riaperta in giornata: p.es. il sacco del pattume. Non è permesso slegare un nodo del genere: p. es. per aprire un sacco di caramelle. Per accedere al contenuto si romperà la confezione. Come è proibito fare un nodo ex-novo, è proibito anche rinforzarne uno già esistente. Pertanto se di Shabbat mattina quando si indossa il Tallit prima della Tefillah ci si avvede che i nodi degli Tzitziyyot si sono allentati non si possono stringere. E’ lecito annodare la cravatta, perché si tratta di un nodo “a farfalla” destinato a essere sciolto in giornata. E’ lecito allacciare le scarpe con un nodo “a farfalla”, perché è destinato a essere sciolto in giornata, ma non mediante un doppio nodo. Se la farfalla si è nel frattempo accidentalmente complicata in un doppio nodo, può all’occorrenza essere sciolta comunque per evitare il disagio (tza’ar). Si usa permettere li-khvod ha-Torah di legare con una farfalla la fascia del Sefer Torah anche dopo la lettura della Parashah di Minchah, sebbene non sia ormai destinata a essere sciolta in giornata. Unire fra loro due lembi dell’abito mediante un ago o una spilla, perché si è lacerato o semplicemente per bellezza, è permesso a condizione che lo infilzi non più di due volte, perché tre sarebbe considerato atto professionale. Se però sa già che lo scioglierà in giornata, è permesso secondo alcuni anche infilzarlo tre volte. Alma, hai un nome speciale perché ha un significato beneaugurante sia in latino che in ebraico. In latino significa “colei che dà da mangiare, nutrice”. In ebraico è connesso con ‘olam che allude sia al “mondo” che all’”eternità”. Da ogni parte del mondo i Tuoi cari sono giunti a festeggiarTi, con l’augurio che la Tua felicità di questo giorno duri per l’eternità.

Purim locali delle comunità italiane

Nel tredicesimo numero di Torat Chayim Rav Nello Pavoncello dedica un articolo ai Purim locali delle comunità italiane. In tempi più recenti si sono interessati del tema Rav Amedeo Spagnoletto, Roberto Salvadori, che hanno scritto sulla notte degli Orvietani, o Purim Shenì di Pitigliano, e Pier Cesare Yoli Zorattini, che ha scritto sui Purim di Padova. Il primo di questi Purim, sembra essere quello di Siracusa, del XV sec. Sul tema si segnala l’articolo di Dario Burgaretta, Il Purim di Siracusa alla luce dei testi manoscritti, pubblicato in Materia Giudaica XI/1-2 (2006). Il fenomeno non riguarda solamente l’Italia ebraica, ma coinvolge anche il nord Africa, la Turchia, il Medio Oriente: Ariel Viterbo ne trae l’impressione che si tratti di un fenomeno mediterraneo. Partiamo dalla fine: Rav Pavoncello concludendo l’articolo scrive: “Sarebbe augurabile che i Purim locali non siano dimenticati o che siano ripristinati nelle comunità non del tutto estinte, affinché il ricordo degli avvenimenti ci ricolleghi agli infiniti anelli della catena delle generazioni che ci hanno preceduti, le quali hanno subito onte, percosse, violenze pur di non venir meno alla fede avita ed all’attaccamento al popolo d’Israele”. In generale si parla di Purim locali riferendosi ad alcuni giorni che commemorano la salvezza da una qualche grave sciagura che ha colpito un’intera comunità, così come avvenne ai tempi del re Acheshwerosh. In questi Purim in alcune comunità vi sono dei festeggiamenti particolari e si legge persino una speciale meghillah, nella quale si narra l’accaduto. A volte nella ‘amidah viene introdotta una formula speciale di ‘al ha-nissim. Questi giorni sono noti nella nostra tradizione come Purim shenì. In alcune comunità il Purim è preceduto da un digiuno, durante il quale vengono recitate speciali Selichot, così come avviene per il Purim propriamente detto. In alcuni luoghi si recita persino l’Hallel, che i chakhamim non hanno stabilito per il vero Purim, e ci si astiene dal lavoro. Rav Pavoncello segnala che l’elenco dei Purim locali contenuti nella Jewish encyclopaedia non è completo relativamente alle comunità italiane. Per questo, avvalendosi di altri lavori citati di Roth e Levinsky, Rav Pavoncello è riuscito ricostruire in maniera abbastanza esatta il quadro italiano. Le comunità che celebravano il loro Purim locale erano Ancona, Casale Monferrato, Ferrara, Firenze, Livorno, Padova, Senigallia, Trieste, Urbino, Verona. a) Il Purim di Ancona, chiamato anche Purim Qatan, veniva celebrato il 21 di Tevet. Il giorno precedente si usava digiunare. Conosciamo dei particolari circa questa celebrazione dall’opera Or Boqer di R. Yosef Fiammetta (Venezia, 1741): “il 21 di Teveth, venerdì sera, dell’anno 5451 (1690), alle ore 8 e 1/4 vi fu un fortissimo terremoto. Furono subito aperte le porte del tempio ed in pochi istanti esso si riempì di uomini, donne e bambini, ancora seminudi e scalzi, che vennero a rivolgere preghiere all’Eterno, davanti all’Arca Santa. Un vero miracolo avvenne allora nel Tempio: non vi era che un solo lume, che rimase acceso finché non fu possibile provvedere”. Nel Ghetto cadde un solo edificio, uccidendo sei persone; quattro salme furono recuperate, dopo che per tutta la notte si lavorò per sgombrare le macerie. L’anno seguente il Rabbinato decretò un digiuno seguito da un giorno di festa. Vennero composti uno speciale Widdui per il digiuno e un inno, accompagnato da vari strumenti musicali, per la festa. Il Chazan invitava il pubblico alla preghiera serale con la formula “Barekhù ‘adatì”; il pubblico rispondeva “Barukh podeh umatzil”. La preghiera serale era accompagnata da strumenti musicali. La ‘amidah era seguita dalla recitazione dell’Hallel intero, senza recitarne le benedizioni. b) Il Purim di Casale Monferrato, conosciuto come Purim dei Tedeschi, fu celebrato sino ad alcuni anni prima delle leggi razziali il 23 di Nissan. A questo Purim dedicò un articolo S. Foà sulla rassegna mensile di Israel nel giugno 1949, dove viene illustrato il cerimoniale della giornata: “circa due ore prima che tramonti il sole, dopo che sono state chiuse le porte del mercato, tutto il popolo, uomini e donne, si raduna nella casa del Signore. Dopo il Kaddish si estraggono tre Sefarim e si portano sul Dukhan, e mentre il Chazzan canta con voce soave i Salmi 46,66, 127 e 137, si rimettono i Sefarim nell’Aron e si comincia la preghiera di Minchà; poi il Rabbino o uno dei Capi della Comunità prende in mano un bacile d’argento e va in giro a raccogliere le offerte dei singoli, che vengono divise tra i poveri. A Casale si festeggiava anche un Purim delle bombe, che ricordava l’assedio spagnolo del 1640 o del 1648. c) A Ferrara si festeggiava un Purim Qatan il 24 Kislew, in ricordo dello scampato pericolo del Ghetto da un incendio. d) In Ketav ha-dat Daniel Terni, probabilmente all’epoca rabbino della comunità di Firenze, descrive l’assalimento del ghetto da parte di un gruppo di persone il 27 Siwan 5550 (1790). Grazie all’intervento del Vescovo la folla venne allontanata. Per questo i fiorentini digiunavano il 26 di Siwan, recitando varie elegie e leggendo la Parashah dei digiuni, mentre il 27 si scambiavano doni e leggevano l’Hallel. e) Sino a non molti decenni fa gli ebrei di Livorno digiunavano il 22 di Shevat, poiché nel 1742 la Comunità venne salvata da un terremoto che minacciò la città. Gli eventi di quei giorni sono narrati nella cosiddetta Meghillat Yedidiah, un testo celebrativo di un ebreo, commerciante livornese, che venne malmenato quasi a morte il 12 di Shevat, e scrisse un componimento per tramandare il ricordo della sua salvezza. Il Rabbino Malakhì ha-Kohen compose il cerimoniale di quel giorno, Qol tefillah e Shivchè Todah (5504). Il Sabato successivo, chiamato Shabbat dei terremoti, si usava recitare l’Hallel con tono solenne. f) A Padova si celebravano alcuni giorni di Purim Qatan: il Purim di Buda, stabilito per il 10 di Elul nel 5444 (1684), perché gli ebrei, accusati di aver aiutato i turchi durante l’assedio della città di Buda, si salvarono per via dell’aiuto di molti cattolici e maggiorenti della città; il Purim del fuoco, in ricordo dell’incendio che colpì il ghetto l’11 di Siwan del 1795. I particolari sono riportati dal Rabbino Refael Finzi nel libro Leshon Esh; in tempi più recenti (1927) il Rabbino Castelbolognesi istituì il Purim della Parashah di Toledot, per via di un tentativo di incendio del Tempio di Padova da parte dei fascisti. Il venerdì sera di quello Shabbat si recitava uno speciale ‘al ha-nissim in ricordo di quella circostanza. g) A Roma si celebra il 2 di Shevat, il Purim di piombo, che ricorda un tentativo di incendio del Ghetto da parte della plebaglia nel 1793. L’origine del nome è incerta. Secondo gli anziani il nome è dovuto al fatto che il cielo si coprì di dense nubi, e una densa pioggia spense l’incendio. Secondo altri l’appellativo di piombo serve ad indicare che si tratta di un mo’ed secondario, da non confondersi con quelli principali. Secondo Rav Pavoncello la prima ipotesi è più credibile. Durante quel giorno non si recita il tachanun. La sera il rabbino teneva una particolare derashah nella quale spiegava il motivo della ricorrenza. L”Arvit era recitato con l’aria dei giorni festivi e preceduto dalla lettura di vari Salmi. Veniva poi recitato solennemente un pizmon “or zeh zeman nissim le’ammò El”, composto da David Bondì, come risulta dall’acrostico delle ultime strofe. h) Il 15 di Siwan 5559 (1799) gli ebrei di Senigallia furono miracolosamente salvati, dopo che i francesi li avevano depredati e ne avevano uccisi tredici. Furono salvati dagli ebrei di Ancona, che venuti a sapere del fatto, inviarono delle navi per trarli in salvo. Il 14 di Siwan si digiunava ed il 15 si leggeva una speciale meghillah, si faceva un banchetto e si scambiavano i doni come nel vero Purim. i) Nel 1833 a Trieste un certo padre Nuvoli nelle proprie prediche attaccò violentemente, fra gli altri, gli ebrei. In particolare il predicatore lanciò un anatema contro chi accettava elemosine degli ebrei. Il predicatore morì nei giorni precedenti Purim e venne sepolto proprio all’ora del banchetto festivo. La poetessa Rachel Morpurgo compose una poesia intitolata Haman nafal, hakes nikfal (Haman è caduto, il miracolo è raddoppiato). l) Ad Urbino l’11 di Siwan venne proclamato poiché la comunità venne salvata da un grave pericolo per intercessione delle truppe francesi nel 1799. m) A Verona il 20 di Tammuz ricorda l’episodio in cui il capo della città si presentò nel 1607 per chiudere il Ghetto dall’esterno, rendendo impossibile agli ebrei di uscirne per procacciarsi da vivere. Alla fine tuttavia concesse agli ebrei di chiudere il Ghetto dall’interno e questo fu ragione di grande giubilo. n) Anche la comunità di Venezia ricorda il Venerdì della bomba: nel 1849 una bomba trafisse il soffitto del Tempio Spagnolo, sprofondando sui gradini dell’Aron, senza esplodere e senza recare danni. Sui gradini dell’Aron c’è un’iscrizione che recita: “Qui sprofondò una bomba, rovinando s’inabissò, danno non produsse, passò irrompendo, ma con giudizio, la sera del capo mese di Elul 5609 nell’ora della preghiera”. Quell’avvenimento è ricordato con una speciale preghiera, composta dal rabbino di allora, Avraham Lattes, che fu autore anche dell’epigrafe sull’Aron. In un articolo, pubblicato in Materia Giudaica VI/1 del 2001, Ariel Viterbo crede che sia necessario, anche alla luce degli ultimi studi, stilare un elenco completo dei Purim locali, attraverso una catalogazione che presenta elementi fissi: luogo, tempo, evento, elemento salvatore, forma della decisione, contenuto della decisione, descrizioni dell’evento, modalità di celebrazione, sopravvivenza delle celebrazioni nel tempo, modalità di segnalazione e di celebrazione odierna, bibliografia.

Umiltà e dignità

Nella Parashat Waerà c’è un passo la cui presenza attende di essere spiegata. Subito dopo la prima chiamata, in cui H. risponde ai dubbi di Moshe in merito alla sua missione in Egitto e gli rinnova l’incarico di andare dal Faraone insieme a suo fratello Aharon a perorare la causa degli Ebrei, ci saremmo aspettati un immediato prosieguo della action e invece si inserisce un brano genealogico, in cui viene rispiegata la parentela delle prime tre tribù: Reuven, Shim’on e Levì fino a quel momento. Rashì fornisce due spiegazioni per questa parentesi. Avendo introdotto le due figure di Moshe e Aharon della tribù di Levì -dice la prima spiegazione-, ne comincia a descrivere il lignaggio fin dall’inizio. La seconda spiegazione è più midrashica ed è tratta dalla Psiqta’ Rabbati. Dal momento che proprio queste tre tribù erano state criticate da Ya’aqov nel momento della Berakhah in punto di morte, come ricordato nella Parashat Waychì, sente ora la necessità di riprenderne in mano la genealogia a parte, per ribadire quanto anche queste siano importanti. Penso che sia possibile un approfondimento. E’ senz’altro vero che tutto è finalizzato a presentare l’estrazione dei due grandi leader del popolo ebraico: Moshe e Aharon. Ma ritengo che tutto ruoti intorno a un versetto in particolare. “E ‘Amram prese in moglie per sé sua zia Yokheved, che gli partorì Aharon e Moshe” (Shemot 6,20). Come ricordano il Targum e Rashì, Yokheved era sorella di suo padre Qehat. Ciò crea un problema. Infatti la Halakhah avrebbe proibito a un uomo di sposare la propria zia, sorella di suo padre, mentre resta permesso il matrimonio con la propria nipote, la figlia del fratello. Quello di Moshe non è l’unico caso in cui un grande personaggio risulta derivare da un’unione illegittima. Si pensi al re David, la cui bisnonna era Rut la moabita. I moabiti, figli a loro volta di un incesto, non avevano il permesso di sposarsi con ebrei. E il divieto avrebbe a sua volta costituito un problema se la Halakhah non lo avesse limitato agli uomini permettendo invece le donne. L’insegnamento che parrebbe derivarne è la spinta all’umiltà da parte di chi detiene il potere. I nobili tendono infatti a spadroneggiare millantando il loro “sangue blu”. Niente di più efficace che sostenere un’origine umile, o addirittura trasgressiva, per scongiurare tutto ciò. I potenti -si vorrebbe dire- hanno difetti come tutti gli altri esseri umani! Il messaggio è ben spiegato da R. Shimshon R. Hirsch riguardo al nostro brano. Nel momento dell’investitura di Moshe si vuole ribadire che il leader del popolo ebraico è un essere umano come gli altri, con pregi e difetti. A scanso di equivoci a contatto di una società come quella egiziana (ma non solo), che tendeva a divinizzare i propri capi. Nel nostro caso si va oltre. Le generazioni si indeboliscono spiritualmente man mano che si allontanano dalla Creazione del mondo. A questo allude un Maestro del Talmud allorché dice: “Se gli antichi erano degli angeli, noi siamo esseri umani. E se gli antichi erano esseri umani, noi siamo… un po’ come asini!” (Shabbat 112b). Quando il Primo Uomo peccò, si insegna, trascinò con sé nel baratro tutte le anime che sarebbero venute al mondo successivamente. Quella che ha avuto in virtù di nascere prima (gadol) ha avuto un tempo di permanenza inferiore nel baratro e dunque è più pura e forte spiritualmente. Ne consegue che il figlio (qatan) sia più debole del padre e così il nipote rispetto agli zii. Il matrimonio è incontro fra uomo e donna. L’elemento maschile è “datore”: è chiamato ad avere un influsso (mashpia’) su quello femminile che è denominato “ricevente” (meqabbel). La logica vorrebbe che il mashpia’ non appartenga a una generazione successiva a quella del meqabbel, perché è il gadol che deve essere mashpia’ sul qatan e non viceversa. Per questo motivo si proibisce a un uomo di sposare sua zia, che appartiene alla generazione a lui precedente, mentre non gli si impedisce di sposare sua nipote, che appartiene alla generazione a lui successiva. Ciò rientra nella natura di tutte le cose, fuorché lo studio della Torah. Lo studio della Torah prescinde da considerazioni di questo tipo. Non ci sono qui determinazioni generazionali a priori. E’ ben possibile che un qatan insegni al gadol, perché il vero Chakham è colui che apprende da ogni uomo, come dice il versetto: “Ho tratto sapienza da tutti i miei insegnanti” (Avot 4,1). Per insegnare questo principio era necessario che Moshe, il Maestro di Torah di tutto il popolo ebraico, desse l’esempio una volta per tutte. E così fu. Proprio Moshe Rabbenu nacque dall’unione di un uomo con sua zia. Invertendo i ruoli. Perché ruoli predeterminati nella Torah non esistono. Conta essenzialmente il merito e l’impegno personali nello studio. Pochi versi dopo un altro versetto sembra riecheggiare quello che abbiamo appena appreso, ma in modo diverso.”E Aharon prese in moglie Elisheva’ figlia di ‘Amminadav, sorella di Nachshon” (v. 23). E’ la generazione successiva. Rashì commenta che il riferimento esplicito a Nachshon, il capo-tribù di Yehudah viene a insegnarci quanto sia importante, nel momento in cui si sceglie moglie, verificare la personalità dei fratelli di lei. Forse la Torah ci vuole insegnare che in un leader l’umiltà è importante, ma bisogna saperla coniugare con la dignità. Particolarmente se la famiglia cui dà luogo è quella del Kohen Gadol. Aharon scelse di imparentarsi con la tribù regale, Yehudah. Egli sapeva che chi è chiamato a esercitare un ruolo così importante non può rinunciare al proprio prestigio. Altrimenti sacrifica inutilmente se stesso e anche gli altri. Nella misura in cui il prestigio personale non è messo al servizio dei propri interessi, ma a quello della collettività. Perché il prestigio, se ben indirizzato, è un “motore di ricerca” straordinario!