Hesped Giorgio Foà z.l.

Fra due mesi sarebbero stati 25 anni. Mi guardavo spaesato intorno, mentre sedevo per la prima volta nell’ufficio al primo piano dell’allora Via Pio V, 12. Era la mattina di lunedì 22 marzo 1993. La porta si spalancò all’improvviso. Senza essersi annunciato, un uomo avanzò e, come se ci fossimo conosciuti da una vita, mi abbracciò. Ricordo le sue parole: “Signor Rabbino, benvenuto. Ieri sono diventato nonno”. Quale migliore auspicio per il mio nuovo incarico! Da allora l’immediatezza dell’approccio e l’assoluta mancanza di formalità caratterizzarono i nostri rapporti. Compresi immediatamente che quello stile così personale era in realtà fondato su una profonda serietà di intenti e un legame con gli esseri umani, i valori e le istituzioni così raro al giorno d’oggi. Non potendo con profondo rammarico presenziare al funerale di Giorgio David ben Gastone Foà a causa dei miei impegni di insegnante a Milano voglio associarmi a coloro che certamente ricorderanno i molteplici aspetti della Sua personalità. Del suo attaccamento a Israele tramite il Keren Kayyemet, del suo costante aiuto ai giovani di Tza’ad Qadimah parleranno altri meglio di me. Ho avuto a mia volta il privilegio di seguirlo in tanti anni e mi soffermerò brevemente su tre ricordi che di lui serbo particolarmente cari. Era un grande frequentatore del Bet ha-Kenesset e credeva fermamente nel valore della Tefillah. Arrivava puntualissimo, sovente nel buio delle mattine d’inverno scorgevo la sua fisionomia mentre attraversava Corso Vittorio, diretto alla Sinagoga, svicolando fra una vettura e l’altra. Una sola volta arrivò con una decina di minuti di ritardo alla funzione delle sette del mattino. Era il primo giorno di Chol ha-Mo’ed di Sukkot, settembre 2001. Era appena occorsa l’alluvione del Po che aveva paralizzato la città: tutti ricorderanno l’estremità superiore ricurva dei lampioni lungo i Murazzi emergere dall’acqua. Giorgio, che allora abitava ancora a Pino, si giustificò dicendo che aveva dovuto fare un lungo detour prima di trovare un ponte sul fiume che fosse aperto. Ma alla Tefillah non volle mancare neanche quel giorno. Uomo di grande Ghemilut Chassadim verso i vivi e verso i morti, per anni si prestò a farmi letteralmente da accompagnatore-autista nel mese di Elul-Settembre quando visitiamo i cimiteri della provincia prima delle Feste Autunnali. Allorché Rosh-ha-Shanah cadeva ai primi di settembre, capitava di dover anticipare alcune cerimonie già all’ultima domenica di agosto, mentre ero ancora in vacanza. Ricordo che più di una volta mi veniva a prendere e mi riportava a Limone, dove trascorrevo le ferie estive. Erano, quelli, appuntamenti annuali che attendevo perché sapevo di trascorrere giornate in allegra compagnia, a controbilanciare in un certo senso l’austero compito che ci attendeva. Ma soprattutto ho distinto il ricordo di quando scivolai e mi ruppi il ginocchio nel maggio dello stesso anno 2001. Fu naturalmente Giorgio a offrirsi di trasportarmi ogni volta con la sua macchina all’ospedale per le visite periodiche e le radiografie di controllo. Non sempre il personale sanitario era solerte nel consegnare i referti. In tal caso era Giorgio, con la sua imprevedibile verve, a battere sul vetro dello sportello, accompagnandosi con la sua voce tonante, con l’effetto di accorciare immancabilmente i tempi d’attesa! Caro Giorgio, Ti ringrazio di avermi aspettato l’altra sera, Motzaè Shabbat Shirah (“della Cantica”), 12 shevat 5778. Ci mancherà la Tua bonomia e la Tua indomabile gioia di vivere, segno – a mio avviso – dell’alta considerazione in cui anche il Santo Benedetto Ti teneva, ne sono certo. Grazie per tutto quello che ci hai dato, Giorgio, ci mancherai tantissimo: il Tuo ricordo sia di berakhah per ognuno di noi.

Parashah Bo 5778 – Fare domande serve

Non è un caso se uno dei momenti più alti della storia ebraica, l’uscita dall’Egitto, presenta per ben tre volte il tema dei bambini, delle loro domande e dell’obbligo dei genitori di educarli. Per difendere un paese è necessario avere un buon esercito, per difendere una cultura serve istruzione. La libertà va salvaguardata e non va presa per scontata. Le sfide che i nostri padri hanno affrontato assieme agli ideali che li hanno ispirati devono essere trasmessi, altrimenti rischiano seriamente di essere persi per strada. Le domande della parashah di Bò sono diventate famose perché sono entrate a far parte della haggadah di Pesach. Quello che emerge è che i bambini devono porre delle domande, e questo aspetto è confluito anche negli aspetti legali del Seder di Pesach. Non vi è nulla di naturale in tutto ciò, anzi possiamo dire che va contro l’evoluzione della storia e della cultura umane. La maggior parte delle culture vedono come compito del genitore e dell’insegnante istruire i giovani e guidarli, ma ciò che è richiesto ai bambini è principalmente obbedire. Socrate, che passò la sua vita ad insegnare a porre domande, venne condannato dagli ateniesi perché corrompeva i giovani. Nel mondo ebraico non è così: i bambini crescono ponendo delle domande e noi abbiamo l’obbligo di istruirli in questo senso. I personaggi biblici pongono domande che mettono in crisi la fede stessa: “il giudice di tutta la terra non fa giustizia?” chiede Avraham, “Perché hai fatto del male a questo popolo? “chiede Mosheh, “Perché il malvagio prospera?” chiede Yermihau. Il più grande riconoscimento in una yeshivah è quello di aver posto una buona domanda, non aver dato una buona risposta. Al ritorno dalla scuola non dovremmo chiedere ai nostri figli “cosa hai imparato?” ma “hai posto una buona domanda?” L’ebraismo non incoraggia l’obbedienza cieca. Anzi in un sistema dominato dalle 613 mitzwot, non esiste una parola per designare l’obbedienza. Nell’ebraico moderno si è dovuto prendere in prestito un termine aramaico, lezayiet. Il nostro compito non è quello di obbedire, ma di comprendere la volontà divina. Perché è così? Perché crediamo che il più grande dono che l’umanità ha ricevuto sia l’intelligenza. La prima richiesta che formuliamo nella ‘amidah è per la conoscenza, la comprensione e il discernimento. Quando si vede un grande sapiente non ebreo dobbiamo recitare una berakhah speciale. Non solamente si deve riconoscere che esiste sapienza anche presso gli altri popoli, ma si deve ringraziare D. per questo. Quanta distanza dalla gretta mentalità che nei secoli, e anche oggi, ha perseguitato e annientato intere culture! Lo storico Paul Johnson considera l’ebraismo rabbinico una macchina sociale altamente efficace per la produzione di intellettuali. L’ebraismo si è sempre focalizzato sullo studio, ha considerato quest’ultimo superiore alla preghiera, la vocazione più alta della vita religiosa. Molto però dipende da come si studia. In questo momento cruciale della storia ebraica Moseh dice che la trasmissione non deve avvenire in modo autoritario. Si deve incoraggiare a chiedere, analizzare, esplorare. Chi ha fiducia nella propria fede non deve temere delle domande. Chi non ha fiducia, ha segreti e sopprime i dubbi, ha solo paura. Non ogni domanda, certo, ha una risposta che possiamo comprendere subito. Alcune cose le capiremo con il tempo e l’esperienza, altre le capiremo affinando il nostro intelletto, altre ancora forse non le capiremo mai. Chiedendo ai figli di chiedere l’ebraismo ha mostrato di essere la fede che nella storia ha onorato maggiormente il dono dell’intelligenza umana.